E’ arrivata la plastica.

BREVE RACCONTO.
Ho fatto vari viaggi in India, chi mi conosce lo sa, precisamente 13. Prima da single poi sposata e, appena mio figlio ha avuto la capacità di esprimersi bene, anche con lui. Poi di nuovo da sola.
Per il mio primo viaggio mi sono aggregata ad un gruppo, chi faceva da guida era un mio amico.
Il secondo da vera incosciente: sono partita da sola senza sapere una parola di inglese, e già a Francoforte mi stavo perdendo, ma ho poi continuato il mio viaggio girando l’India per un mese e mezzo, imparando, oltre ad un po di inglese, anche tante, tante altre cose che ho continuato a coltivare nei miei viaggi seguenti. La cucina, senza dubbio, ma anche la danza (ho poi studiato nel tempo danza classica indiana, stile Orissi), ma soprattutto vivere con gli indiani, a casa loro, facendo mio anche un po del loro mondo.
Ritorniamo al primo e al racconto di cui fa parte quest’oggetto che potrebbe essere ai più, misterioso.

Era il 1990 e l’India era molto, molto diversa da come l’ho trovata l’ultima volta che ci sono stata. Si andava al mercato della frutta e si doveva avere la sporta per poterla portare a casa perché i sacchetti di plastica non esistevano nei villaggi dove soggiornavo. Solo sapone solido sfuso, solo pacchetti fatti con la carta di giornale per impacchettare piccole dosi di alimenti, poco altro se non stoffe naturali tinte con colori più che naturali.
Un giorno vado a pranzo in una scuola, eravamo nel Bengala, a circa 4 ore di auto da Calcutta, ma sembrava di vivere in un altro mondo. La natura, seppure fosse dicembre, era rigogliosa, quasi tropicale, palme e cocchi dappertutto, poi risaie e distese gialle di fiori di mostarda: una visione.
In questa scuola mi siedo per terra su una stuoia, e su una foglia di banano viene servito il pasto. Poche cose semplici senza spezie o peperoncino, un miracolo per chi mangia in India. L’acqua era del Gange, acqua depurata naturalmente. E dove servivano quest’acqua? In questa stupenda ciotola di argilla grezza. E quando si finiva il pasto, si andava dietro allo stanzone dove si buttava la foglia di banano e le mucche facevano merenda, dove si gettava la ciotola poiché bastava idratare nuovamente l’argilla per fabbricarne altre in modo semplice. Ecco, a questo mi è servita la ciotola: semplicemente per bere. Ma non è un piccolo miracolo anche questo? Pranzare e non lasciare nessun passaggio dietro di noi? Niente piatti bicchieri o posate, si mangiava semplicemente con le mani; niente detersivi o altri inquinanti. Niente di niente. Solo mucche sazie e cocci da far rinascere a nuova vita.
Poi, un giorno, nei villaggi di tutta l’India, arrivò la plastica. Sacchetti di plastica, bicchieri e piatti di plastica, stoffe sintetiche, contenitori e otri di plastica…. E montagne, nel vero senso della parola, di plastica. Un popolo che da millenni era abituato a buttare il “piatto” alla mucca e il “bicchiere” su altra argilla si trovò a buttare con lo stesso metodo la plastica. Bastarono pochi decenni perché il governo decidesse di mettere fuori legge, quindi vietare ufficialmente, vari oggetti, sacchetti e contenitori in primis, di plastica.
Purtroppo, secondo me, ormai troppo tardi.
Con la mia ciotola ho peregrinato per varie città, dopo questo mio primo viaggio, fatto 4 traslochi, ma lei è lì, nella mia libreria, a ricordarmi quanto sia bello e, se si vuole, anche semplice, vivere con meno impatto sulla nostra madre terra: Bumi.
Assunta.
Grazie per avermi ascoltato.